#35 | Bologna | 22 ottobre 2024 Cara lettrice, cara lettore,bentornato in Macina.Oggi parliamo di riforme costituzionali al tempo della crisi della politica dei partiti.Lo facciamo a partire d...

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#35 | Bologna | 22 ottobre 2024

 

Cara lettrice, cara lettore,

bentornato in Macina.

Oggi parliamo di riforme costituzionali al tempo della crisi della politica dei partiti.

Lo facciamo a partire dal numero 3/2024 della rivista «il Mulino»Riforme necessarie e riforme sbagliate a cura di Francesco Clementi, docente di diritto pubblico comparato a La Sapienza di Roma e membro dell’attuale direzione.

La rivista «il Mulino» esce dal 1951 e ha dato il nome sia all’Associazione di cultura che ne è proprietaria sia alla nostra casa editrice che la pubblica.

Se vuoi conoscere questa storia la trovi qui: continuiamo a raccontarla perché essere un editore nato da una rivista aiuta a spiegare perché il nostro catalogo ha preso la forma che ha, di «esito del pensare insieme».

Nel suo articolo introduttivo, che apre a una serie di interventi molto diversi tra loro, Clementi racconta un Paese in cui si litiga sulle regole come se non fosse possibile averne di condivise, per poi però condividere spesso il fatto di essere insieme al governo senza cura degli elettorati e delle loro richieste.

È come se lo scontro politico si fosse trasferito sulla Costituzione per evitare la responsabilità delle politiche che invece potrebbero riconnettere gli eletti agli elettori.

Per affrontare i problemi che abbiamo di fronte, bisogna decidere di voler superare quella mancanza di «coraggio politico» – come ebbe a definirla già più di dieci anni fa Giorgio Napolitano – che impedisce alla politica e ai suoi interpreti di far fare un salto di qualità alle loro scelte.

Bisogna insomma che le forze politiche, da un lato, ritrovino il coraggio necessario per fare le riforme e dare più tenuta al nostro Paese in un contesto mondiale ed europeo percorso da così forti scosse e tensioni; e, dall’altro, che esse stesse vogliano davvero provare a colmare il distacco sempre più allarmante tra governanti e governati, e dunque tra la società e le istituzioni, come peraltro l’astensionismo elettorale puntualmente evidenzia, nonostante le tante prove di impegno sociale, coesione, solidarietà e responsabilità di cui è invece ricca la società  italiana.
 

 

Per darti un’idea dei contenuti del numero rimandiamo a questa Strada Maggiore 37, la newsletter della rivista a cui puoi iscriverti qui, e alle risposte che ci ha dato il nostro ospite:Professore, ci sono tre riforme al vaglio del parlamento: il premierato, lautonomia differenziata, la riforma del sistema giudiziario. Usando il titolo e la logica del numero appena uscito, quali di queste è la riforma sbagliata e quale la riforma necessaria?

Con questo numero abbiamo inteso dire che la prima riforma che manca è quella che non si vede, e che è precedente a tutte quelle presentate oggi in parlamento, ossia andare oltre quell’incomunicabilità tra le forze politiche, tra la maggioranza e l’opposizione anzitutto.

Assistiamo a una volontaria assenza di dialogo, e questo è un danno perché sulle regole generali di ammodernamento del testo costituzionale il dialogo è necessario – come ricorda instancabilmente il Presidente Mattarella – per rispettare appieno il senso del modello democratico-pluralista del nostro ordinamento.

Personalmente, credo che tutti e tre i temi in discussione – il premierato, l’autonomia differenziata, la riforma del sistema giudiziario – abbisognino di riforme. Tuttavia i testi presentati mi sembrano molto inadeguati rispetto alle soluzioni che si intendono perseguire. Peraltro, l’assenza in parlamento di un testo delle opposizioni che corrisponda, punto punto, alle proposte della maggioranza, rende il tutto a maggior ragione zoppicante, facendomi tornare al problema di partenza: l’incomunicabilità tra le parti.

Semplificando, la mia posizione è questa: sì alle riforme, ma non così. Ed è questo l’angolo visuale del numero 3/24 della rivista, che però, sia detto, ospita contributi diversamente critici.

 

Perché, secondo lei, le opposizioni non hanno presentato un loro progetto di riforma?

Temo per due ordini di ragioni: perché faticano a stare assieme, anzitutto sui temi concreti. E perché pensano, al tempo stesso, che l’idea di un Aventino sulle riforme – dentro una logica movimentista – paghi elettoralmente di più. A mio avviso è un doppio errore, dal quale spero rinsaviscano quanto prima.

 

 

Qual è, secondo lei, il premierato «da salvare»? E quale premierato invece creerebbe dei problemi? Insomma qual è il punto di caduta che auspica?

Da studioso aperto alle riforme della Carta costituzionale e al rafforzamento della premiership, il testo presentato in parlamento mi sembra ancora molto confuso, rigido e ambiguo.

In primo luogo non si capisce cosa lo si elegge a fare il premier direttamente se poi può essere disarcionato dalla sua maggioranza parlamentare; inoltre. dentro questa ambiguità non vi è nulla che dia risposte alle necessità di un riequilibrio sul piano delle garanzie che un’elezione diretta determina. A questo si aggiunge il fatto che si prevede un’elezione diretta senza sapere, tramite la presentazione di un testo in parlamento, con quale legge elettorale verrebbe eletto questo premier.

Insomma, la confusione mi sembra totale. Personalmente, come ho scritto nel mio recente libro sull’istituzione del Presidente del Consiglio, ritengo che la via migliore sia rafforzare il governo adeguando i poteri del Presidente del Consiglio a quelli degli altri capi di governo dell’Unione europea.

Per ottenere questo non serve l’elezione diretta del premier in Costituzione, basta una formula che promuova la sua designazione. Non da ultimo perché, se si vuole una qualche forma di elezione diretta, serve allora inserire il ballottaggio in Costituzione, designando con il primo voto la composizione del parlamento (tranne una quota di premio) e con il secondo, in un unico ballottaggio per entrambe le Camere tra i primi due leader, la premiership (attribuendo il premio nel rispetto della sua ragionevolezza e della giurisprudenza della Corte su ulteriori apparentamenti). Solo così si eviterebbe il rischio-stallo di due maggioranze distinte e distanti.


Che cosa è verosimile che accadrà, nei fatti?

Per fortuna – proviamo a essere ottimisti – il testo sarà riaperto alla Camera dei Deputati perché l’evidente asimmetria tra gli elettori residenti in Italia e quelli all’estero porta a una incostituzionalità manifesta.

Con l’elezione diretta del premier i voti esteri conterebbero per il 10% degli aventi diritto (circa 5 milioni di elettori), e potrebbero pertanto risultare decisivi; determinando un grave contrasto tra l’esito elettorale presidenziale e i pochi seggi attribuiti ai residenti all’estero (8 deputati e 4 senatori).

Dunque si ricomincerà da capo, ai sensi dell’art. 138 Cost., alla Camera dei Deputati. E auspico che ciò avverrà quanto prima, con quel buon senso della ricerca del dialogo che è raccomandato dal testo costituzionale, appunto all’art. 138 Cost., con un chiaro favore per una maggioranza larga e condivisa. Perché ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che riforme a maggioranza sono destinate a essere sconfitte.

 

Insomma, le riforme costituzionali devono essere fatte in parlamento e senza l’occhio ai referendum. Intende questo?

È la Costituzione che indica la via.Riforme condivise a 2/3, non a maggioranza: perché come nel 1946 le regole si scrivono assieme. E perché non si può negare alla Costituzione quel largo consenso sociale che è da sempre, invece, la base vera della forza del testo costituzionale.

Se si vuole davvero una «Costituzione di tutti», questa deve essere necessariamente condivisa dai principali soggetti alternativi. Cercare il referendum a maggioranza sarebbe ancora una volta il problema, non la soluzione. La tentazione di «menar le mani» è purtroppo all’origine della costituzione dei comitati referendari di maggioranza e di opposizione, prima ancora che il parlamento abbia ben lavorato.

 

 

Nell’introduzione al numero si legge: «La costruzione politica, quella del riformismo in specie, è opera di fatica: allontanarsi da questa consapevolezza significherebbe abbandonare la tradizione del Mulino». Le chiedo quindi cosa sia il riformismo, e quale la tradizione del Mulino.

In una battuta, assai semplice e rapida, il riformismo è interrogarsi e provare a rispondere ai problemi con soluzioni che tengano conto dei vincoli.

Il riformista quindi è colui che scommette sul futuro perché, impegnandosi per il cambiamento, si pone anzitutto il problema dei vincoli e dei limiti dove svolgere la sua riflessione e proporre le sue soluzioni. E da sempre questo è l’approccio del Mulino, che non è ideologico appunto per definizione. Ma, studiando i problemi e il contesto dove essi si svolgono, studia e propone soluzioni tenendo conto dei vincoli sistemici.

 

Oggi però il riformista, per essere tale, deve parlare con il governo Meloni. Quali sono le principali difficoltà di cultura politica che si incontrano in questo sforzo?

Il problema odierno è che pochissimi hanno interesse a dialogare davvero, cioè a scommettere sulla propria responsabilità. Vale per la maggioranza Meloni, senza dubbio, ma vale anche per le opposizioni. Senza questo sforzo non c’è politica, solo marketing politico. Che è altro.

 

 

A proposito di marketing. Questo numero ospita anche un’intervista molto ampia a Enrico Mentana, sulla politica italiana e le sue evoluzioni. Perché questa scelta?

Perché la politica oggi è fatta molto, se non moltissimo, dalla comunicazione. E un professionista come Enrico Mentana conosce l’Italia e la politica italiana nei suoi mille risvolti, anche storici, con una consapevolezza che molti politici oggi non hanno. È una lettura che consiglio vivamente. Anche per il tono e il modo con il quale il direttore Mentana ha affrontato i passaggi recenti più complessi della nostra storia politica.

Per oggi è tutto. Alla prossima in Macina!

 


 

 

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