#26 | Bologna | 27 agosto 2024
Cara lettrice, caro lettore,
bentornato in Macina.
Agli sgoccioli di agosto, in attesa di qualche temporale di fine estate, proviamo ad ascoltare il rumore del mare in burrasca immergendoci tra alcune delle più suggestive pagine dei poemi omerici.
Lo facciamo con tre guide d’eccezione come Giorgio Ieranò, Luigi Spina e Silvia Romani che nella serie La voce degli antichi ci hanno regalato la loro personale interpretazione di Iliade e Odissea.
Prima di tutto ci vuole una tempesta, dicevamo nell’oggetto di questa newsletter.
In Omero si tratta sempre di burrasche divine e sovrannaturali, di solito è Zeus che oscura il cielo e solleva onde gigantesche come montagne. Alla fine del V canto dell’Odissea è invece Poseidone a scatenarla, per far approdare Ulisse sull’isola dei Feaci:
Radunò i nembi, sconvolse il mare agitando il tridente;
sollevò una tempesta di venti, e mare e terra coprì di nubi.
La notte scese dal cielo.
Piombarono insieme Euro, Noto e l’impetuoso Zefiro e Borea figlio dell’etere e sollevarono immensi marosi.
Allora la forza e il coraggio vennero meno a Odisseo.
Odissea, V, 291-297
Dopo il naufragio, nel IV canto, Ulisse incontra Nausicaa. Una figura femminile diversa da tutte le altre: non una dea o una maga come Calipso e Circe, non sposa e madre come la paziente Penelope, ma un’adolescente nel cui carattere si alternano innocenza e desiderio, ingenuità e malizia.
Ed è proprio a partire da queste pagine, tra le più lievi e indecifrabili di tutto il poema, che Giorgio Ieranò in Nausicaa e l’idillio mancato ha scelto di trasmetterci la sua versione di questo canto.
Il legame incompiuto tra Ulisse e Nausicaa è, in fondo, anche il racconto di un’occasione perduta, di una speranza che è balenata solo in forma di possibilità, di un futuro che non si è mai realizzato.
Luigi Spina, nella prossima uscita della serie in libreria dal 30 agosto e già disponibile in preorder, ci porta invece faccia a faccia con il mostro ne Il libro dell’orrido Polifemo.
Siamo nel IX canto dell’Odissea quando finalmente Ulisse, una volta svelato al re Alcinoo il suo nome, inizia a narrare le tappe del suo viaggio da Troia verso Itaca.
“Ciclope, mi chiedi il nome glorioso e allora te lo dirò, tu però dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno è il mio nome; Nessuno mi chiamano mia madre, mio padre e tutti i compagni”.
Così dissi e lui subito mi rispose con animo spietato:
“Nessuno io lo mangerò per ultimo con i suoi compagni gli altri prima di lui: questo sarà il mio dono ospitale”.
Odissea, IX, 364-370
Questo testo ci accompagna alla scoperta di una dimensione meno mostruosa e più umana di Polifemo, a partire dalle diverse riproposizioni del più famoso tra i Ciclopi nella storia della letteratura fino a un affaccio sul futuro e sull’Intelligenza Artificiale, per chiederci in che modo la figura del mostro continuerà a evolversi nel tempo.
Chiudiamo questa Macina omerica con un salto nell’Iliade, che Silvia Romani descrive così: «cinquantuno giorni in un anno, l’ultimo anno di dieci lunghissimi anni passati a Troia. L’Iliade a raccontarla sarebbe tutta qui: basterebbe quasi un’epigrafe».
Delle armi e del vero amore è una rilettura piena di fascino e di sorprese del VI canto, il canto delle prime volte.
Le prime foglie cadute a terra, a rappresentare da questo momento in poi nell’immaginario poetico universale la caducità della vita umana; il primo momento in cui due guerrieri scelgono la strada del dialogo al posto della battaglia; la prima dichiarazione d’amore tra due sposi, Ettore e Andromaca; la prima volta in cui un padre, Ettore, abbraccia suo figlio, Astianatte, sapendo di andare forse a morire in battaglia.
Valori, gesti e passioni capaci di suscitare anche oggi stupore e immedesimazione.
Come la modernità delle parole che Andromaca rivolge al suo amato, con le quali ti diamo appuntamento alla prossima settimana:
Così Ettore tu sei per me padre e madre veneranda,
fratello, tu sei il mio sposo fiorente.
Ora abbi pena per noi e rimani qui, sulla torre;
non fare di tuo figlio un orfano, di tua moglie una vedova.
Iliade, VI, 429-432
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