#28 | Bologna | 10 settembre 2024
Cara lettrice, caro lettore,
bentornato in Macina.
Questa settimana riflettiamo su una parola controtempo particolarmente complessa: pace. Ed è proprio questo il titolo dell’ultimo libro di Arianna Arisi Rota.
Abbiamo voluto Pace nella collana Parole controtempo per ragioni che forse non ti aspetti: non tanto perché siamo in tempo di guerra, e le immagini provenienti da Ucraina e Palestina sfregiano ogni giorno questo alto ideale; ma perché abbiamo colto in questa parola il peso di una concretezza che oggi, nell’era delle identità pure e dei colori nitidi, fatichiamo a reggere e pronunciare.
Nei giorni scorsi abbiamo preso un caffè con Arianna Arisi Rota dialogando proprio sulla scomodità della parola pace: «pensare la pace significa accettare la prova della realtà, e la zona grigia del possibile è un luogo dove difficilmente andiamo volentieri».
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Arianna Arisi Rota è una storica della diplomazia europea che ha studiato in particolar modo l’Ottocento, il secolo in cui si affermano le nazioni europee (e, con esse, il problema della loro convivenza). Per questo, più che nella storia della filosofia, per dipanare il senso della parola pace Arisi Rota ci accompagna dietro le quinte delle paci realmente fatte.
«Parola-slogan al singolare, buona per tutte le stagioni, consolatoria in quanto autoesplicativa e autorisolutiva, in realtà essa è insidiosa e persino paradossale, molteplice e sfuggente, al punto che, per inchiodarla, si chiama «pace» la cessazione delle ostilità – un armistizio, come quello del 1918 – o l’assenza di guerra, e le si associano specificazioni e aggettivi, quasi da sola non riuscisse a vivere di una concreta vita propria, di una definizione assoluta. Perpetua. Eterna. Stabile, durevole, equa, giusta, genuina, condivisa, sostenibile...».
Professoressa, nel libro lei scrive che usiamo la parola pace per significare diverse cose: un armistizio, una tregua, l’assenza di guerra, uno stato d’animo. È possibile una definizione su cui siamo tutti d’accordo?
Se vogliamo sostanziare la parola pace senza ricorrere ad aggettivi o a perifrasi possiamo definirla come un processo spesso non lineare alimentato da persone, per creare o ricreare relazioni.
La pace è un movimento, un salto mentale che riesce a configurare un orizzonte nel momento in cui viene pensata come possibile, e preferibile, rispetto all’apertura o alla continuazione delle ostilità. La pace comincia nella testa di uomini e donne, come recita la dichiarazione della conferenza internazionale che si svolse a Yamoussoukro, in Costa d’Avorio, nel 1989, in quello che sarebbe stato l’ultimo anno della guerra fredda.
La pace richiede immaginazione, quella che alcuni teorici chiamano anche «immaginazione morale», rottura di paradigmi, disponibilità ad uscire da sé e avventurarsi in quel terreno di mezzo, il middle ground, dove torti e ragioni si mischiano, e dove non serve umiliare l’avversario, antico o recente che sia.
Quindi, pace non è una parola dell’ideale, ma del reale?
Per essere certi della concretezza di questa parola basterebbe chiedere a uomini, donne, bambini che di colpo, in qualche luogo del mondo – a noi vicino o lontano – non debbano più temere l’arrivo di missili o bombe, non debbano vedere l’arrivo di carri armati, possano andare al lavoro, a scuola, a farsi curare. Non avere paura. Questa è la pace reale.
Lo diceva, e lo ricordo nel libro, anche Robert Kennedy nel 1967 a proposito della guerra che invece ancora continuava in Vietnam. Ma, come ho detto, la pace nasce innanzitutto come possibilità mentale: poi deve tradursi in fatti, deve concretizzarsi e scendere dal regno dell’ideale in quello del reale. Nel libro ho cercato di raccontare questo processo, questo movimento che l’esperto di negoziati William Ury chiama il passaggio «dal no al sì».
Così intesa, la pace è un luogo molto difficile. Non si sta comodi nei processi, nei terreni di mezzo, nei compromessi. In questo senso, è davvero una parola controtempo?
È certamente più facile e comodo per tutti dividere il mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, ragioni e torti. Gli affari umani ci mostrano però che non è così, che esiste appunto un terreno di mezzo – la zona dei grigi, se vogliamo chiamarla in questo modo – nella quale tutto si impasta e si confonde. E solo con uno sforzo reciproco delle parti in lotta e con una efficace e convinta mediazione che si può accettare di stabilire la relazione di cui parlavo, quella che rende la pace possibile e, auspicabilmente, durevole.
Pace non significa perfezione né «tutto e subito», anzi: significa soprattutto proporzione e accettazione di limitazione. Pragmatismo, compromesso, perché no? Ma la convinzione che la pace sia preferibile deve essere autentica, non un bluff che spesso si nasconde nella tecnica del thumb and talk – colpire mentre sono in corso i colloqui di pace. E neanche ci si può affidare a una pace imposta dall’esterno, perché difficilmente durerebbe. La pace deve inverarsi come convinzione degli antagonisti. Ecco perché pace non significa nemmeno resa.
Qual è la relazione tra la «pace» e la «sicurezza»? E come cambia il significato dei due termini nelle epoche?
Se facciamo un piccolo test e cerchiamo la ricorrenza della parola pace e della parola sicurezza attraverso Google Ngram Viewer, in testi che vanno dal 1800 al 2019, vediamo che negli anni Novanta del Novecento, l’ultima fase della guerra fredda, la parola sicurezza ha sorpassato la parola pace per frequenza d’uso.
Oggi pace e sicurezza sono spesso abbinate nelle condizioni dettate dai leader, ma anche nella comunicazione politica in generale, e nei settori degli studi accademici. All’inizio dell’Ottocnto, dopo quasi vent’anni di continue guerre prodotte da un disegno egemonico continentale con radici rivoluzionarie – quello napoleonico – la sicurezza per le potenze vincitrici su Napoleone rappresentò un valore condiviso: sicurezza rispetto al rischio di nuovi espansionismi e di rivoluzioni. Ma già in quel tempo Leopardi, nello Zibaldone, poteva denunciare la corsa agli armamenti come esito dell’ossessione di sicurezza, un fenomeno poi esploso a fine secolo e che contribuì all’escalation verso il primo conflitto mondiale.
Se poi ci pensiamo, il Consiglio dell’Onu è stato chiamato Consiglio di sicurezza, non di pace. La sicurezza è ormai entrata nel lessico politico come condizione per qualsiasi accordo di pace: ad esempio, nel piano proposto mesi fa dal presidente ucraino Zelensky al G7, i primi tre punti riguardano la sicurezza dal rischio nucleare, la sicurezza alimentare e quella energetica.
Nel libro lei scrive che la pace tra le nazioni è stata per lungo tempo un obiettivo dell’Occidente: che cosa significa esattamente?
La pace è stata a lungo un obiettivo di quello stesso Occidente che peraltro, per dirla con Arnold Toynbee, ha ferito il mondo. Nel senso che lo sforzo culturale di riflessione sulla necessità – anche economica – della pace (la pace come condizione di prosperità e crescita) è cominciato molto lontano, per esempio nell’antica Grecia, con la pace di Nicia tra Atene e Sparta di cui scrisse Aristofane nel 421 a C.
Come un filo rosso, essa è passata per tutte le epoche producendo risultati intellettuali significativi (penso a Per la pace perpetua di Kant, un best seller del 1795, ma non solo), soprattutto dopo ondate di conflittualità intensa. Mettere in sicurezza singole regioni, aree, scacchieri che dir si voglia, è stato un obiettivo costante, ma il mutare della tipologia dei conflitti ha continuamente sfidato quella che possiamo definire l’architettura della pace: oggi si parla di pace ibrida, di pace multistrato, magari parziale, tale da riflettere appunto un tempo dove vecchio e nuovo si mescolano e a volte ci disorientano.
La pace, però, resta possibile. In fondo, come ha detto Nelson Mandela: sedersi e parlare col nemico è l’arma migliore.
La settimana prossima torneremo a parlare di storia e avremo come ospite Francesco Benigno e il suo ultimo libro: La storia al tempo dell’oggi. A presto!
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