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#29 | Bologna | 17 settembre 2024
 

Cara lettrice, caro lettore,

bentornato in Macina.

Oggi riflettiamo sulla relazione tra storia e memoria e lo facciamo con La storia al tempo dell’oggi di Francesco Benigno, da pochi giorni in libreria.

Francesco Benigno insegna storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si è spesso occupato di temi che fuori dallo specialismo suonano sanguinolenti, e che per essere affrontati richiedono la solida ermeneutica dello storico di professione: le rivoluzioni, il crimine organizzato, il terrorismo, la pedofilia.

In questo libro sostiene che nella percezione contemporanea la storia stia perdendo importanza, mentre a guadagnare spazio è la memoria, la quale però non è semplicemente il passato, ma una selezione arbitraria di ciò che vogliamo ricordare, a determinati scopi. Proprio su questo punto ci siamo concentrati durante il caffè di questa settimana.

Se in Occidente siamo afflitti dal «presentismo» – una sorta di dimensione atemporale, dove i legami causali che tengono insieme passato, presente e futuro sembrano essersi allentati –ciò non è accaduto per caso. 

Secondo Francesco Benigno la storia al tempo dell’oggi è la storia dopo la crisi della modernità e del suo primo grande racconto, quello della Rivoluzione francese.

«Se al cuore della narrazione tradizionale della storia nel tempo del moderno stava la lenta ma inarrestabile liberazione di un oppresso da una qualche forma di servitù instau rata da un oppressore, e se la master narrative di questa liberazione (che è poi la liberazione del genere umano che si incarna nelle singole lotte per la liberazione) è stata la Grande Révolution, quella Rivoluzione francese che ha svolto il ruolo di copione-guida, da allora in poi non è stato più così.

Quel copione è stato sostituito da un’altra narrazione decisiva, che ha al suo centro non più la lotta tra oppressi e oppressori ma il rapporto sacrificale tra una vittima, individuale o collettiva, e il suo carnefice: una dialettica, quest’ultima, simboleggiata e riassunta dal più efferato crimine di massa mai commesso, l’Olocausto per l’appunto.

E proprio come la Rivoluzione francese serviva da canone per le tante rivoluzioni, per quelle del passato ma anche implicitamente per quelle del futuro, così l’Olocausto è divenuto il modello tacito del trauma collettivo e della sua consegna memoriale, replicata poi in infiniti episodi».

Dalle pagine 54-55.

 

Professore, che cos’è la storia?

La storia è da secoli, nella civiltà europea occidentale, un discorso sul tempo passato e cioè su quello che ricordiamo e su quello che vogliamo, possiamo o dobbiamo ricordare.

Incrociando le elaborazioni di altre discipline scientifiche, esso è divenuto un discorso particolare, sorvegliato e fondato sui materiali che del passato ci restano: le fonti. Ciò consente agli storici di svolgere una funzione sociale importante.

Per fare un esempio contemporaneo, rispetto alla molteplicità di discorsi incontrollati che si incrociano sul web, gli storici hanno il compito di stabilire cosa si possa dire del tempo passato.

Insomma, da sempre gli individui, i gruppi e le istituzioni si inventano volta a volta il passato che gli serve, ma questi discorsi per essere creduti veri debbono essere sottoposti a un vaglio critico, e prendere così la forma della storia.


E invece, cosa è la memoria?

La memoria storica, che non è quella individuale, è un discorso collettivo sul passato che serve a giustificare l’esistenza di nazioni, di stati, di gruppi, di religioni, di differenze etniche e di genere e a dotare gli individui di un bagaglio che fonda la costruzione dell’identità individuale e di gruppo.

In questi ultimi tempi, di fronte alla crisi del moderno, la memoria storica è venuta crescendo ed è divenuta centrale, in un rapporto ambivalente con la storia. Nelle forme più estreme si teorizza che ogni gruppo etnico-identitario abbia diritto alla sua storia, una storia tramandata senza filtri critici.

Nelle sue forme più mediate anche la memoria storica, senza perdere la sua funzione, cerca di trovare una strada di rispettabilità, di farsi a suo modo storia.

 

Come stanno in relazione questi due termini? È corretto dire che una buona memoria deve conoscere la storia, ma una buona storia non deve conoscere la memoria?

Tulle le società vivono nel tempo e si fondano non solo su ciò che accade ma su ciò che è accaduto in passato. La memoria storica, vale a dire l’affastellarsi di discorsi memoriali sul passato più o meno – a seconda dei contesti – governato dal sistema di potere vigente, può essere studiato. Ci può essere perciò una (buona, questa si) storia della memoria storica: uno studio cioè di come le religioni, gli stati e i gruppi abbiano fondato la propria essenza identitaria sul passato e sulle svolte che l’hanno fondata.

La storia può e deve tenere conto della memoria storica e della sua funzione sociale mentre la memoria storica (non la definirei buona) cerca la storia solo per fondare le proprie verità che però sono presupposte perché interagiscono con i fondamenti identitari. E ne dipendono.

 


Lo storico come scienziato della verità, come colui che ricostruisce come era davvero il passato, è un mito? O è rischioso metterlo in discussione?

No, non è un mito. La storia è una disciplina sociale che si è data delle regole, a imitazione di quelle scientifiche, e un metodo di approccio alle fonti, a quel che ci resta del passato, oltre la memoria storica, ma inclusa la memoria storica.

Mettere in discussione la storia significa autorizzare ogni gruppo e ogni potere costituito o in formazione a darsi quel ricordo del passato che gli serve, a prescindere dalla sua verità effettiva.

Perciò si, è rischioso mettere in discussione il fatto che la libertà garantisce a tutti di pensare ciò che vuole del tempo passato ma occorre affermare che chi vuole sapere come sono andate davvero le cose può affidarsi a una guida sicura e affidabile, che non pretende di sapere tutto del passato ma di raccontare ciò che i resti del passato consentono di affermare.

 

Perché oggi verso la storia c’è questo atteggiamento selettivo? Da cosa deriva? Dall’inquietudine? Dal capitalismo (io consumo il passato che voglio)? Dalla sfera dell’intrattenimento, che si allarga fino a chiedere agli storici di divenire narratori?

L’inquietudine verso la storia deriva dalla disgregazione di due discorsi rassicuranti che fondavano insieme l’ordine mondiale e l’ordine concettuale.

Il primo di questi discorsi è quello della modernità. Vale a dire che tra passato, presente e futuro vi è una traccia, un nesso fondato sull’idea di progresso. Questo nesso si è disintegrato, il futuro non è più prevedibile e passato e presente si sono come sganciati. E la storia come ascesa progressiva degli oppressi liberatisi dagli oppressori ha lasciato il posto a una diversa dialettica, quella tra carnefici e vittime. Al posto della rivoluzione lo sterminio, l’Olocausto.

Il secondo discorso è quello del rapporto tra la storia occidentale e la storia del mondo. Mentre in passato la prima sembrava inglobare il tutto oggi vi è su questo una dispersione e molte storie possibili e contrastanti.

 

 

È corretto vedere in questa tendenza anche una pulsione anti-illuministica? O è allarmistico?

Non è allarmistico. La concezione dell’illuminismo è toccata due volte dalla crisi della modernità. In primo luogo perché è fondata sulla opposizione tra antico e moderno e su una visione progressiva della storia, in secondo luogo perché appartiene tipicamente alla cultura europea.

Oggi, col mutamento climatico, con epidemie dilaganti come il Covid-19, e con la guerra in Europa e nel Medio-oriente, essa appare terribilmente inadeguata in quanto il futuro non è più un orizzonte progressivo e rassicurante. Da questo punto di vista però la storia può offrire altri scenari del passato che possono interessare perché diversamente somiglianti al presente. Penso al tempo segnato dalla cultura del barocco, sfiduciato e pieno di dubbi come l’oggi e portatore di domande inquietanti ma adesso divenute più vive e affascinanti.

 

La cancel culture ha più a che fare con la storia o con la memoria? È possibile mettere in discussione la memoria pubblica vigente senza fare danno alla verità storica?

La memoria pubblica vigente può e deve essere scalfita, ma dalla storia, nella misura in cui essa può elaborare scenari diversi del passato, non dalla memoria storica e non dalla cosiddetta cancel culture.

Quest’ultima è una versione estrema della memoria storica, che pretende di divenire l’unico discorso socialmente riconosciuto. Essa fa riferimento a gruppi diversi e quindi se su certe tematiche può raggruppare una maggioranza su altre no; in quanto pretendendo che tutti debbano adottare la memoria storica di una parte, è strutturalmente divisa e divisiva.

La cancel culture esprime una pretesa di assolutizzazione della memoria storica come unica storia permessa, e ciò penso sia francamente inaccettabile.

 

 

#InAgenda a Bologna

Mercoledì 25 settembre, alle ore 16, Francesco Benigno presenterà il libro a Bologna, nella Biblioteca del Mulino, in vicolo Posterla 1. Dialogheranno con l’autore Umberto Gentiloni Silveri e Vincenzo Lavenia, coordinati dall’editor Francesca Bertuzzi.

Se sei interessato puoi prenotarti a info@mulino.it

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