#20 | Bologna | 18 giugno 2024Cara lettrice, caro lettore,bentornato in Macina.Nei giorni scorsi abbiamo ricordato in editrice il nostro «primo lettore», Ezio Raimondi. Filologo e critico l...

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#20 | Bologna | 18 giugno 2024

Cara lettrice, caro lettore,

bentornato in Macina.

Nei giorni scorsi abbiamo ricordato in editrice il nostro «primo lettore», Ezio Raimondi

Filologo e critico letterario, Raimondi è noto anche al pubblico non specialistico per essere uno dei massimi studiosi di letteratura italiana del Novecento.

Meno noto forse è che molto, moltissimo, del nostro catalogo è figlio delle sue letture e dei suoi consigli.

Pure essendo una persona «fondativa» per il Mulino, Raimondi stesso non si raccontava mai come un «fondatore» del gruppo, ligio alla cronologia dei fatti che lo vide entrare a far parte della redazione della rivista il Mulino nel 1953, due anni dopo il primo nucleo di redattori-amici.

Negli anni, Raimondi elesse il Mulino a sua prima casa culturale e fu in conseguenza di questo fatto che per quarant’anni, dal 1967 al 2006, presiedette il Consiglio editoriale.

Per ricostruire il rapporto di Raimondi con il Mulino e con la città di Bologna ti proponiamo queste calde pagine di Camminare nel tempo, un libro-intervista realizzato insieme a due suoi allievi, Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti.

Sono pagine che restituiscono la temperatura della persona e dell’intelettuale, insieme al clima «neoilluministico» che ha accompagnato i primi anni del nostro lavoro editoriale.

Alle sue origini il Mulino era il posto dove fare «i libri che desidereremmo avere scritto e non siamo stati capaci di scrivere».

Il testo che segue è tratto dalle pagine 146 e seguenti

Io non feci parte subito della piccola comunità che inventò la rivista «Il Mulino», perché era un mondo borghese liceale e io appartenevo a un altro universo. Ma una serie di circostanze, di mediazioni di vario genere, tra cui entrava anche, in qualche modo, la componente universitaria, con certe lezioni che davo di latino o di tedesco, mi portò a conoscere in primo luogo Pedrazzi, poi Contessi, Matteucci, Santucci e Cavazza, che mi accolsero rapidamente nel loro gruppo.

Se si facesse ricorso alla vecchia formula dei patres conscripti, si potrebbe dire quelli erano i patres, e io uno degli aggiunti, dei conscripti. Si trattava però di un’identità che aveva, a sua volta, una forte componente bolognese, dove i comportamenti, il dialogare, lo stare insieme, il discutere venivano proprio da una vecchia consuetudine radicata nel luogo. Si confermava così e si ampliava quello che potrei chiamare il senso della città, come modo di essere e di vivere intellettualmente una situazione comune.

Allorché Il Mulino vinse un premio a Viareggio, per i giovani, lo andò a ritirare Cavazza, che era un poco il manager del gruppo; quando gli venne chiesto in che cosa consistesse Il Mulino, egli rispose: «Mah, non siamo degli specialisti, amiamo fare dei pranzi insieme». Era una formula pittoresca, apparentemente convenzionale, che invece diceva qualcosa di più preciso e di più profondo, a indicare che il mondo intellettuale è fatto poi di rapporti di amicizia e di relazioni dirette. Come, d’altro canto, era accaduto nella stagione delle riviste del primo Novecento: pensiamo alla «Voce», a Gobetti e via dicendo...

Andare insieme a mangiare voleva dire che la convivialità era un modo di essere, una capacità di dialogare. Devo peraltro subito aggiungere che, mentre raccoglievo queste sensazioni e le fondevo in operazioni di scrittura erudita, incontravo anche lo stereotipo della bolognesità: accomodante, cordiale, pacioccona, ma poco profonda, ancora meno incline ai drammi, pronta al compromesso, secondo la tradizione pontificia del Senato bolognese, autonomo e insieme dipendente.

Proprio perché le mie radici e le mie prime immagini venivano da una vita quotidiana dura, fatta di lavoro e di difficoltà, piena di situazioni tese e di momenti drammatici, ciò che per me, nel tempo, diventava l’esperienza di Bologna era sì la cordialità, la possibilità di essere con l’altro, di ascoltarlo, ma era anche l’idea di qualcosa di aspro, di nascosto, di conflittuale, dove l’accomodamento non è un compromesso, piuttosto il tentativo di tenere insieme elementi di difficile coesione.

Più tardi, d’altro canto, avrei scoperto che Morandi manifestava una percezione simile: le tranquille bottiglie o i vecchi paesaggi esprimevano in realtà un rovello, portavano dentro una tensione, tutto il dramma dell’esistenza riproposto e rivissuto nella quiete vittoriosa delle forme.

Anche dentro Il Mulino questo incontro di vecchie tradizioni, la cattolica, la liberale laica, la socialista, non era un’operazione ovvia e presupponeva proprio l’idea di un coesistere insieme, sentendosi parte di tradizioni che insieme potevano dare luogo a una tradizione, ma che spesso comportavano un conflitto, non un accomodamento. Vero è poi che l’amicizia era comunque più forte e invitava a restare insieme nonostante i contrasti.

La Bologna che mi portavo dentro era un Bologna umana, cordiale, come lo era mia madre, ma allo stesso tempo consapevole delle asprezze del vivere, delle difficoltà, delle intese talvolta impossibili, delle crisi, dei vuoti. Questi elementi si mescolavano e Il Mulino diventava per me lo spazio di una dialogicità aperta, dove potevo pensare anche di fare la mia parte nella politica senza essere un politico e dove al mio lavoro di maestro, di insegnante, di ricercatore erudito si aggiungeva il momento della riflessione civile.

In primo luogo, infatti, Il Mulino mi mostrava che si poteva fare politica anche restando degli intellettuali, partecipando ai problemi del proprio tempo con un sentimento di responsabilità.

Nel caso bolognese le cose erano complesse, perché era nato nel frattempo un sistema che qualcuno, forse esagerando, ha poi definito il potere della sinistra. L’autonomia stessa del Mulino si affermava con qualche difficoltà poiché, finanziato da sponsor di destra, propugnava invece una volontà di modernizzazione del Paese nel nome di una democrazia giovane come quella italiana, soppressa nel ventennio dalla tirannide della dittatura fascista.

Anche in questo caso non eravamo allineati, ma eravamo contro, con un modello che non corrispondeva a nessuna logica rigorosa di partito. Certo, se penso al Mulino come realtà bolognese, penso a un luogo dove le idee, anche quando si contrapponevano, servivano a collegare fra loro quelli che le proponevano, in modo che alla fine non si sentissero soli ma partecipi di un piccolo programma, di una comunità in qualche modo solidale. Più tardi ho scoperto che anche nella letteratura, anche nel farsi di tante esperienze internazionali, potevano pesare ragioni di questo tipo.

I filosofi del Mulino – Matteucci, Santucci, Pedrazzi – proponevano un superamento di Croce, con la formula, che veniva da Torino, del neoilluminismo, a favore di un processo di razionalità che fosse anche razionalità strumentale.

C’era una volta di più l’America di mezzo, con una nuova realtà che non era soltanto quella di Vittorini e di Pavese, cioè della letteratura, ma che coinvolgeva il pensiero, attraverso un nuovo strumento d’indagine, la sociologia, che consentiva di passare dallo storicismo a un’idea della storia più ampia e strumentalmente più avvertita

Il Mulino, quindi, muoveva da un’ipotesi ampia di discipline che andavano recuperate in una dimensione non più soltanto di tipo idealistico, ma semmai dentro una nuova enciclopedia, sorretta da un razionalismo capace di calarsi nelle cose, conoscendo per poi intervenire e modificare. In senso lato, si può parlare di un’idea di liberalismo riformista.

Di mio, ci mettevo lo stupore della mia ignoranza e nello stesso tempo la volontà di recuperare, insieme con il piacere di non essere solo dentro una disciplina, ma di integrarla con altre discipline: avevo capito, intuitivamente, che attraverso quel rapporto plurale una disciplina si specializzava in modo più illuminato, anziché chiudersi dentro se stessa, e riusciva così a espandersi.

Al Mulino, in questa prima fase, si discuteva di libri da fare e si diceva: facciamo i libri che desidereremmo avere scritto e non siamo stati capaci di scrivere.

 

L’estratto che hai appena letto è stato scelto da Natalina Raimondi per ricordare suo padre durante il bellissimo incontro del 5 giugno scorso nella nostra Emeroteca. Le siamo grati per questa splendida selezione.


Nell’anno del nostro Settantesimo compleanno, questa rubrica ci accompagna alla riscoperta di un pezzo di editoria italiana.

In occasione del cenetenario della nascita, le Istituzioni della città di Bologna dentro le quali Raimondi ha agito organizzano una serie di incontri.

Qui trovi il programma promosso dalla Città metropolitana e Comune di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune di Lizzano in Belvedere, insieme al Dipartimento di Italianistica, al Mulino, alla Biblioteca dell’Archiginnasio e alla Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, in collaborazione con la Fondazione del Monte.

Se la storia di Raimondi al Mulino ti interessa puoi riascoltarla in questo podcast curato dalla Fondazione Biblioteca del Mulino, attraverso il dialogo tra Marco Antonio Bazzocchi e Paolo Ferratini, curatore dell’ultimo libro di Raimondi, Le voci dei libri.

Qui invece trovi tutti i libri di Ezio Raimondi che abbiamo a catalogo.

Qui un bel profilo scritto da Andrea Battistini per la rivista il Mulino.

Per oggi è tutto, alla prossima Macina!



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