#8 | Bologna | 19 marzo 2024
Cara lettrice, caro lettore,
bentornato in Macina.
Oggi parliamo di Silvio Berlusconi.
Abbiamo appena pubblicato C’eravamo tanto odiati di Andrea Minuz: una graffiante storia dell’antiberlusconismo a 30 anni dal celebre discorso della discesa in campo – ai giovani che non c’erano riproponiamo quel momento televisivo nella «traduzione» di Francesco Oggiano di Will.
Tra un sorriso e una risata amara Minuz ci riconduce con la mente a un’epoca vicina e remota: a quell’adolescenza pre-internet in cui tutti i millennial potranno almeno un po’ rispecchiarsi.
Fu così che una generazione cresciuta davanti a I Puffi, Lady Oscar, Ok il prezzo è giusto! e I bellissimi di Rete 4, si rovesciò nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle giornate anti-B in un consesso quindi anche molto edipico. La mattina alle manifestazioni «contro la Moratti» o «la Gelmini», la sera a vedere Dawson’s Creek su Italia 1.
Se l’antiberlusconismo è stato soprattutto «cultura», il romanzo di formazione delle generazioni cresciute con la tv commerciale, il berlusconismo è stato principalmente un fatto politico.
Lo ha ricostruito il politologo Piero Ignazi nel Populista in doppiopetto. Un libro completo perché analizza il successo della modernizzazione berlusconiana nel suo momento sociale e di costume, ma su quello sfondo costruisce una disamina puntuale: di un leader e di un partito, Forza Italia, che hanno anche saputo resistere allo scorrere del tempo. Proprio su questo lo abbiamo intervistato.
1) Professore, sono passati 30 anni da quel 26 gennaio 1994. Il tempo è maturo per un bilancio distaccato o ci siamo ancora dentro? Leggendo il suo libro ci si muove tra i ricordi e un presente che sembra non passare mai.
La parabola di Silvio Berlusconi si è conclusa da tempo. La sua espulsione dal Senato nel 2011 per la condanna relativa al reato di frode fiscale poteva già suggerire la fine di una storia. In realtà così non è stato: nel 2013 il suo partito torna al governo per una serie di harakiri politici da parte del centrosinistra e all’inizio del 2014 il segretario del PD lo rilegittima come leader politico invitandolo nella sede del partito per discutere ed eventualmente concordare una serie di riforme istituzionali.
L’epifania è però stata di breve durata perché l’anno dopo lo stesso Renzi lo esclude dalle trattative per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Questo è il primo smacco politico che Berlusconi subisce: in precedenza nessuno l’aveva messo all’angolo, men che meno in quella maniera brusca e quasi sprezzante. Da lì inizia una china verso l’irrilevanza politica, marcata in maniera indelebile dal soprasso elettorale della Lega alle elezioni politiche del 2018.
Sono quindi molti anni che Berlusconi non è più un attore politico centrale nel sistema partitico italiano. Altri leader, nel centro-destra e fuori da quell’area, si sono affermati in questi ultimi dieci anni.
2) Il suo libro conta sei capitoli: incubazione-irruzione-frenata-governo-ritorno-tramonto. In quale di queste fasi il berlusconismo rivela maggiormente la sua natura?
In realtà tutti i titoli rimandano a fasi politiche ben caratterizzate che riguardano la traiettoria politica di Berlusconi e del suo partito. Approfitto di questa precisazione per sottolineare che il mio lavoro non è centrato solo sul personaggio ma anche sulla sua creatura, Forza Italia.
La prima fase dell’incubazione si prefigge l’obiettivo di inquadrare le condizioni che hanno reso possibile e in parte favorito la «discesa in campo» di Berlusconi. La società degli anni ottanta ribolle di umori e domande che nessun leader politico riesce a interpretare, perché tutti, compreso Bettino Craxi che più di ogni altro si presenta come un potenziale modernizzatore, sono ancor immersi nel passato. Solo Berlusconi incarna quella società arrembante, disinibita e desiderosa di affermazione, e allo stesso tempo bisognosa di rassicurazione.
È comunque difficile indicare una fase centrale perché fanno parte tutte, con le loro specificità, di una lunga presenza al vertice della politica. Diciamo che il terzo capitolo, relativo agli anni dalla fine della sua prima esperienza governativa e al ritorno al potere nel 2001 sono quelli in cui Berlusconi definisce in maniera chiara alcuni aspetti caratterizzanti del suo messaggio – la visione populista plebiscitaria della sua concezione politica – e solidifica la sua presenza nel sistema partitico costruendo un vero e proprio partito organizzato superando le iniziali ubbie.
3) La premessa del suo ragionamento è che nessun leader ha segnato la storia repubblicana come Berlusconi. Non De Gasperi, non Togliatti, non Moro, nemmeno Craxi. Nessuno. E questo per due ragioni: quei leader erano leader di partiti di massa, prima dell’ascesa delle comunicazioni di massa.
In effetti nessuno prima di Berlusconi ha utilizzato in quel modo la comunicazione. Per ragioni strutturali, oggettive, e personali.
In primis perché i mass media sono entrati di prepotenza nella comunicazione politica. La televisione aveva un ruolo marginale e ben definito – le «mitiche» tribune politiche –, tutte condotte con schemi rigidi. Solo nei secondi anni ottanta i politici appaiono anche in programmi di intrattenimento. L’infotainment cresce esponenzialmente per poi debordare ogni limite nei decenni successivi. Chi aveva il controllo di gran parte dei media, e soprattutto di quelli televisivi, e sapeva usarli con abilità, aveva un vantaggio competitivo enorme rispetto agli avversari.
Il peso e il ruolo della comunicazione televisiva negli anni dell’incubazione e poi in quelli ruggenti del berlusconismo è stato decisivo. La presenza di Berlusconi nello spazio pubblico non ha avuto confronti sia per la diffusione e pervasività della televisione rispetto al passato, sia per la disponibilità dell’impero Mediaset.
4) Se è così possiamo dire che la parabola discendente di Berlusconi coincide con l’avvento dell’internet dei social network, percepiti come alternativa attiva al passivo televisivo. I «meet-up» di Grillo ricordano molto l’entusiasmo dei «club» di Forza Italia che lei racconta nel libro, sono promesse figlie di un momento tecnologico. Comincia così il tramonto del berlusconismo? Con una tecnologia che lo sorpassa?
È proprio così. Berlusconi è la televisione come Grillo è internet. C’è un passaggio del testimone tra gli interpreti principi dei rispettivi medium. Il declino di Berlusconi inizia anche in coincidenza dell’affermarsi di un nuovo strumento di comunicazione che non gli appartiene. I dati che riporto nel libro sull’utilizzo di internet da parte dei vari leader politici mettono in luce la scarsa confidenza di Berlusconi con questo mezzo.
Questo passaggio del testimone tra Berlusconi e Grillo non si limita però allo strumento, è anche sostanziale, politico. Il messaggio populista e anti-politico veicolato da Berlusconi per decenni viene raccolto e rilanciato, pur con alcune varianti, da Grillo. E il leader del M5S è ben più credibile per la sua estraneità al mondo politico. Ripetere continuamente lo stesso refrain antipolitico quando si è stato al vertice delle istituzioni e un protagonista assoluto della politica per più di vent’anni non ha più molta efficacia.
5) Generazioni oggi già pienamente adulte non ricordano la politica senza Silvio Berlusconi. Questo porta anche a una romanticizzazione della Prima Repubblica, che ritroviamo molto frequente nel civismo di chi non l’ha vissuta. Ma quanto è fuorviante il rimpianto del «prima» nella comprensione del fenomeno Berlusconi?
La nostalgia per la politica di un tempo non è un fenomeno solo italiano. In molti paesi europei è diffusa una visione edulcorata della politica del passato. E più ci si allontana più sembra che un tempo tutto fosse perfetto. Anche l’atteggiamento anti-partitico così diffuso oggi, emerge da un confronto tra i partiti e la politica dei primi decenni post-bellici e quelli attuali. Credo quindi che si tratti di un fenomeno più ampio che non riguarda soltanto un raffronto con Berlusconi come unico termine di riferimento.
6) Nella collana Contrappunti il Mulino ha appena pubblicato C’eravamo tanto odiati di Andrea Minuz, che graffia sull’epoca che lei analizza, in particolare sull'antiberlusconismo e i suoi tic. Per Minuz l’antiberlusconismo rappresenta «un itinerario esemplare della facilità e della caparbietà con cui ci dissociamo dalla realtà quando la realtà non è d’accordo con noi». È d’accordo? La sua analisi sembra incorporare questo problema di comprensione, soprattutto da parte degli oppositori.
Non c’è dubbio che ci sia stata, come sottolineo nel libro, una incapacità da parte dei vari attori politici di comprendere il fenomeno del berlusconismo, analogamente a quanto fatto poi nei confronti del grillismo e del Movimento 5 Stelle.
Berlusconi raccoglieva l’eredità dei moderati che abbandonavano i vecchi partiti di governo e, allo stesso tempo, li rimobilitava presentandosi come nuovo e più in sintonia con le domande di cambiamento della società. La chiave del successo di Berlusconi non sta nella riproposizione del passato, se non nel riferimento al «miracolo economico», ma in una proiezione verso il futuro.
7) Un’ultima domanda sul Mulino, essendo lei socio dell’Associazione che possiede la nostra editrice. L’intelligenza sociale maturata nel Mulino e che dopo la caduta del Muro si è anche riversata nelle istituzioni, è stata culturalmente, complessivamente, antagonista al berlusconismo. Pensiamo all’esperienza dell’Ulivo ma non soltanto. Com’è stato il trentennio visto da Bologna? Da questo angolo visuale cosa abbiamo capito meglio e cosa ci siamo persi?
L’Associazione il Mulino, come disse ai tempi del berlusconismo trionfante il nostro compianto socio Tommaso Padoa Schioppa, ha sempre avuto dei confini precisi alla sua destra e alla sua sinistra.
Alla sua nascita il Mulino voleva creare uno spazio comune alla cultura politica democratica nelle sue varianti liberali, democratico-cristiane e, più tiepidamente allora, socialiste. Le ali estreme erano estranee al progetto di costruire una coscienza critica.
Rispetto al berlusconismo va segnalato che proprio per rimarcare le caratteristiche fondative dell’Associazione e la sua distanza rispetto a quel fenomeno, venne redatto un documento nel 2009 in cui si sottolineava il pericolo di «una tendenziale trasformazione della democrazia in un regime a legittimazione popolare passiva, e della cittadinanza in un insieme di individui irrelati, o collegati solo corporativamente, orientati nel pensiero e nell’azione all’esclusivo interesse particolare, all’orizzonte privato». E si denunciava «la tendenza a individuare il legame sociale in un generico populismo spesso ostile e estraneo alle istituzioni repubblicane, o in arbitrarie affermazioni d’identità collettiva, improntate a generici istinti sentimentali e compassionevoli a cui si associano però nuovi fondamentalismi e nuove intolleranze, foriere di esclusioni, e non di inclusione democratica».
Il Mulino è stato sempre attento e vigile a contrappore lo spirito critico e la primazia della democrazia liberale nei confronti delle minacce che incombono.
Per oggi è tutto, a martedì prossimo!
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