20 febbraio 2024
Cara lettrice, caro lettore,
bentornato in Macina.
Oggi parliamo di Dino Grandi, il diplomatico che il 25 luglio 1943 presentò al Gran Consiglio del Fascismo l’ordine del giorno che consentì la destituzione e quindi l’arresto di Benito Mussolini.
Te ne parliamo perché nei giorni scorsi la Rai ha mandato in onda una serie incentrata sulla sua figura: La lunga notte - La caduta del Duce, sei episodi che hanno riportato l’attenzione del grande pubblico sui quei giorni cruciali della nostra storia recente.
Ma soprattutto perché siamo l’editore delle memorie di Dino Grandi.
Il regime cadde in una riunione di cui non esistono verbali. Per quarant’anni Grandi evitò dichiarazioni, ma nel 1983 lo storico Renzo De Felice lo convinse a pubblicare la testimonianza scritta di getto nel 1944 e subito chiusa in un cassetto.
Appena cinque anni prima della sua scomparsa, Grandi lasciò dunque al Mulino un documento di straordinaria importanza. Qui sotto riportiamo uno stralcio del libro che restituisce il ritmo della sua cronaca.
«Uscii per entrare un minuto nella piccola chiesa in Piazza Colonna. Raccomandai al Signore mia moglie ed i miei figli lontani e Lo pregai di illuminare me ed i miei compagni nell’azione che stavamo per compiere. Misi nelle mie tasche due bombe a mano Breda che il giorno precedente mi ero fatto dare dal generale Agostini, comandante della milizia forestale. Mi prospettai freddamente, come eventualità pressoché certa, che non saremmo usciti vivi da Palazzo Venezia».
Di e su Dino Grandi abbiamo poi pubblicato altri titoli (oggi fuori catalogo, ma disponibili nell'Emeroteca del Mulino): nel 1985 uscì Il mio paese, la sua autobiografia politica; nel 2003 un approfondito studio dello storico Paolo Nello, che utilizza in maniera critica le testimonianze di Grandi. Nel 2020 sempre Paolo Nello ha pubblicato con noi questa Storia dell'Italia fascista, che consigliamo per la sua completezza, soprattutto agli studenti che si avvicinano allo studio del Ventennio.
Sulla caduta del Duce, tra i libri più recenti c’è Come muore un regime dello storico e giornalista Paolo Cacace.
È proprio a Paolo Cacace che abbiamo chiesto un commento sulla figura di Grandi, sulla serie prodotta dalla Rai e, più in generale, sul difficile rapporto tra fiction e conoscenza storica.
Chi era Dino Grandi?
Dino Grandi fu un fascista della prima ora, figlio di un agiato proprietario rurale del bolognese. Aderì all’interventismo mussoliniano dopo iniziali simpatie per Prezzolini e Murri; nel corso del ventennio mantenne con il Duce sempre un rapporto difficile, talvolta conflittuale, caratterizzato da «fedeltà disobbediente».
Era soprattutto un fine diplomatico (diede il meglio di sé come ministro degli Esteri e quindi come ambasciatore a Londra). Rimosso anche per l’ostilità di Hitler, Grandi entrò in una zona d’ombra come presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni e come ministro della Giustizia (fu vittima della «purga» ministeriale del febbraio 1943) fino allo scontro finale nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Attaccò Mussolini ma non rinnegò le sue idee.
Che ruolo ebbe nella caduta del fascismo?
Certamente Grandi ha avuto un ruolo decisivo nel coagulare i consensi intorno alla mozione che indusse la maggioranza dei gerarchi a votare contro Mussolini. Mostrò coraggio e rischiò la pelle. Altri firmatari (come Ciano e De Bono) avrebbero pagato con la vita il sì a quella adesione. Ma in una prospettiva storica – come peraltro cerco di spiegare nel mio libro Come muore un regime – bisogna valutare bene il significato di quel voto.
In realtà, re Vittorio Emanuele III se ne servì soprattutto per avere la copertura «costituzionale» per liberarsi di Mussolini; licenziamento che aveva deciso di concerto con Acquarone e con i militari, che avevano pronti da mesi i piani operativi. Il devastante bombardamento alleato di Roma e le minacce di Hitler nel vertice di Feltre affrettarono i tempi. Alla fine Grandi non raccolse i frutti sperati dalla sua azione temeraria. Fu spiazzato dai militari, anche perché il sovrano scelse Badoglio e non Caviglia come successore del Duce.
A chi ha studiato quel frangente nel dettaglio che impressione ha fatto la recente fiction della Rai?
Devo confessare che sono rimasto profondamente deluso. Era un’occasione per aiutare il grande pubblico, soprattutto le giovani generazioni, a conoscere i particolari di una fase cruciale della nostra storia recente. Con serenità, senza pregiudizi. Invece, secondo il mio parere, il risultato è stato clamorosamente mancato.
D’altra parte, nei titoli di coda delle varie puntate appariva una scritta criptica e pilatesca:
«Questa serie è un’opera di finzione. Fatti e personaggi ivi narrati e/o rappresentati sono stati rielaborati creativamente dagli autori e liberamente adattati per necessità narrative. Qualsiasi riferimento a persone vissute o viventi e/o a fatti realmente accaduti è pertanto da intendersi puramente casuale».
Che significa che i riferimenti al Duce, a Grandi, ai Savoia erano «casuali»? Quindi non era una ricostruzione storica, bensì un mix che ha consentito agli autori di travisare i fatti, di ridicolizzare le figure di Mussolini e del Re, di ignorare il ruolo fondamentale dei militari nel golpe anti-mussoliniano, di tacere su quello di altri attori, dal Vaticano agli anglo-americani e di utilizzare, ad esempio, un episodio inventato di sana pianta (quello del capitano amico di Grandi assassinato dagli agenti dell’Ovra) per ritagliare, con la storia d’amore dei due ragazzi ribelli, un piccolo ruolo all’opposizione antifascista altrimenti totalmente assente.
Secondo lei perché, oggi, è tornato interesse per la figura di Grandi? E perché si è scelto di rappresentarlo così? In filigrana coglie degli obiettivi?
Non so perché sia stato scelto di mitizzare la figura di Grandi e della moglie Antonietta Brizzi, che nelle ore precedenti la riunione del Gran Consiglio non si era mossa da casa sua a Castenaso e si era limitata a inviare un messaggio segreto al marito con l’indirizzo di alcuni prelati presso i quali poter chiedere rifugio in caso di necessità.
Perché si è ignorato, invece, il ruolo di altri gerarchi, come Bottai e Federzoni, che agirono insieme a Grandi per raccogliere le firme per far approvare l’ordine del giorno che restituiva al sovrano il comando effettivo delle forze armate? Forse il tentativo di accreditare con Grandi la figura di un presunto «fascista buono» e legalitario da portare come esempio e da contrapporre a un Mussolini ad un passo dal baratro? Chissà.
Cosa è stato radicalmente inventato rispetto alla cronologia dei fatti?
In realtà, dopo aver ricevuto dal sovrano l’invito a darsi da fare per convocare una riunione del Gran Consiglio come «surrogato» del Parlamento, ai primi di giugno del ’43 (e non a marzo, come si evince dal racconto), Grandi si ritirò vicino Bologna e restò in silenzio per 45 giorni. Tornò a Roma solo quattro giorni prima della riunione del Gran Consiglio, convocata da Mussolini, subito dopo il fallimento del vertice di Feltre, per dimostrare a Hitler che controllava ancora i gerarchi.
Qual è il rapporto della Storia con la fiction? Esiste una buona formula di relazione tra queste due dimensioni? O sarà un rapporto sempre conflittuale?
Comprendo come non sia facile trovare una formula che concili la verità storica con la divulgazione e la fiction televisiva. È un’operazione utile, ma delicata. Proprio per questo sarebbe buona norma procedere con la massima cautela. Anzitutto, bisognerebbe evitare strafalcioni temporali perché la storia – come si sa – è un intreccio di fatti. L’ossatura della verità degli avvenimenti andrebbe salvaguardata, non alterata, storpiata, come è avvenuto nella recente fiction. Le «necessità narrative» dovrebbero essere limitate a specifici episodi e situazioni, non certo per interpretare a proprio piacimento le vicende dei protagonisti di un momento storico cruciale.
Ed eccoci alla rubrica dedicata ai nostri 70 anni.
Nella scorsa in Macina siamo ripartiti dalle origini, cominciando a conoscere i ragazzi che fondarono la rivista «il Mulino». In particolare, abbiamo ricordato Fabio Luca Cavazza e la sua diplomazia culturale, intessuta tra Bologna e Washington.
Oggi ricordiamo Nicola Matteucci, uno dei maggiori esponenti del pensiero liberale italiano. Filosofo del diritto formatosi nel pensiero di Benedetto Croce, Matteucci approdò al liberalismo di matrice anglosassone ed elesse il Mulino a suo luogo di dialogo con i cattolici e i socialisti democratici.
In questo podcast curato dalla Fondazione Biblioteca del Mulino, la sua figura è ricostruita attraverso il dialogo tra Tiziano Bonazzi, americanista, assistente di Matteucci negli anni Sessanta, e Angelo Panebianco, attuale presidente del Consiglio editoriale che indirizza la nostra editrice.
In Nicola Matteucci, mio fratello, la sorella Anna Maria riporta una significativa definizione che Matteucci diede della rivista che contribuì a fondare, che egli considerava di «terza generazione»: dopo le riviste affermatesi in epoca liberale e in epoca fascista, «il Mulino» era una rivista del «post- fascismo».
«Nel Mulino il dibattito ideologico è quasi assente, proprio perché la rivista nasce dalla confluenza di cattolici non integralisti, di socialisti non leninisti, di liberaldemocratici non laicisti e non seguaci di un crocianesimo dogmatico».
Per il momento è tutto, alla prossima in Macina!
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