#40 | Bologna | 19 novembre 2024
Cara lettrice, caro lettore,
da qualche giorno è in libreria Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista, l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia.
Un libro che «cammina per Roma», intrecciando tre fili della nostra storia: lo stato unitario, con l’esigenza di fare di Roma la capitale d’Italia; il fascismo, con il suo programma politico e il mito della romanità; la modernità di inizio Novecento, con i suoi frastuoni, le sue masse e le sue rotture strette nel solco di una così ingombrante continuità storica.
È precisamente l’«atmosfera» del fascismo che non cessa di intrigarci in quanto aspetto specifico che da noi prese la modernità novecentesca. Un’atmosfera, appunto, che a suo modo assorbì tutto il gigantesco insieme di novità che tra le due guerre si avventarono sull’Europa e sugli Usa determinando quell’autentica frattura di civiltà che ha rappresentato il Novecento.
Fu come è noto la frattura che avviò il passaggio dall’egemonia liberal-borghese alla società di massa, dal discorso allo slogan, dal valzer al charleston, dalla gonna al due pezzi, dal libro al cinema, da un tipo di uomo e di donna ad un tipo affatto diverso. Quando cioè al mondo di ieri – il mondo del rango, delle buone maniere e dei buoni sentimenti successero invece i tempi della violenza, della spontaneità, dell’eros e della catena di montaggio, i tempi raffigurati dall’incalzante ritmo del linguaggio del cinema e del fumetto.
Da molti punti di vista gli anni del fascismo costituirono, pur nella rigida unilateralità della dittatura, una scena ideale sulla quale gli aspetti, le idee e le forme dell’immaginazione, gli individui, i modi e gli oggetti della vita quotidiana tipici del passaggio d’epoca ora detto poterono apparire nel modo diciamo così più evidente, in un certo senso più puro.
L’intreccio tra fascismo e modernità ci porta a chiederci quanto sia fascista la Roma fascista, e alla più grande questione che questa domanda include: quali sono le radici dell’identità italiana?
Un tema che, come vedremo, Galli della Loggia ha già affrontato portando al Mulino una collana con lo stesso nome. Una domanda che gli abbiamo posto nuovamente a pochi giorni dall’uscita del libro.
A conti fatti, questo è un libro su cosa significa essere italiani. Quanto la nostra capitale è rappresentativa della storia italiana? Quanto Roma mente su chi siamo e quanto dice il vero?
Forse che Parigi è rappresentativa dell’intera Francia e Londra della Gran Bretagna o Madrid – figuriamoci! – della Spagna? Ma l’eredità antica e simbolicamente potentissima prima della Roma dei Cesari e poi della Roma della Chiesa cattolica hanno familiarizzato da sempre tutti gli italiani con la centralità dell’Urbe nella loro storia. E poi è questione di confronti: non vedo quale altra città italiana potrebbe essere la nostra capitale.
Quanto alla rappresentatività, diciamo così, antropologica di Roma rispetto al resto del Paese, essa è andata via via aumentando nei decenni e direi che oggi è di certo superiore al 50%.
Se Roma oggi nell’immaginario nazionale è capitale, questo è anche a causa del lavoro di modernizzazione fatto dal fascismo. Che cosa aveva di moderno il fascismo in sé?
Bisogna essere cauti nel generalizzare: ci furono molti fascismi così come ci sono state molte declinazioni della modernità, la quale non fu certo inventata dal fascismo. Il fascismo però aderì a molte sue dimensioni, ad esempio in campo artistico e da un punto di vista psicologico-spirituale (il nichilismo, l’attivismo).
Fu giovanilista ben prima del ’68 e, benché maschilista e patriarcale, mise le giovani italiane in short con le gambe in bella mostra. In ambito politico realizzò per primo alcuni aspetti della modernità, ad esempio nel ruolo delle masse e nell’economia pubblica.
Nel libro lei denuncia come retorica la domanda «perché ci sono ancora così tanti monumenti fascisti in Italia?», la quale insinua che non abbiamo fatto i conti con il fascismo e trascura sia il tema della conservazione artistica sia le decisioni prese nel dopoguerra dai vincitori antifascisti. Soffermiamoci su questo punto, al centro di tante polemiche contemporanee.
Si tratta a mio giudizio di polemiche in buona parte strumentali. Grazie anche alla Resistenza, l’Italia ha fatto i conti con il fascismo e il suo personale politico-amministrativo in misura molto maggiore di quanto lo Stato tedesco dopo il 1949, la Spagna post-franchista o la Russia post-sovietica – cioè i Paesi europei che hanno avuto regimi in qualche modo paragonabili al fascismo – abbiano fatto con il proprio passato. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Quanto alle opere d’arte realizzate sotto il fascismo o per suo impulso, sono opere d’arte e basta. Esse ci dicono, sì, del fascismo, ma nel senso che semmai ci invitano a indagarne la complessità.
Qui si inserisce una distinzione importante sulla differenza tra nazismo e fascismo. Lei scrive che, a differenza di Hitler, Mussolini non tentò di imporre il proprio gusto alla cultura italiana perché era inserito in una serie di ambienti e relazioni che doveva assecondare. Per intenderci, una Margherita Sarfatti tedesca non esiste.
Già. Bisogna dirlo a tanti storici e storiche, specie anglosassoni, che per molte ragioni tendono a fare dei due regimi dittatoriali la medesima cosa. Da questo punto di vista credo che sarebbe assai interessante uno studio che ricostruisse la storia del sintagma «nazi-fascismo», da chi e quando fu coniato, come e perché è diventato d’uso corrente.
Personalmente mi attengo alla lezione di Renzo De Felice che ha sempre insistito sulla forte diversità tra i due regimi. Rispecchiata dai loro due capi Hitler e Mussolini, in tutto diversissimi e dall’atteggiamento di diffidenza, se non di vera e propria sorda opposizione, che molti elementi del regime ebbero nei confronti dell’alleanza con la Germania. Spesso, peraltro, ricambiati dai tedeschi.
Uno dei fili rossi della sua ricostruzione è il ruolo che a inizio Novecento ebbe il cinema: sono le immagini i nuovi materiali con cui il fascismo costruisce la sua Roma.
È noto che il cinema italiano come industria culturale di massa ebbe dal regime un impulso fondamentale. Quanto all’attenzione che questo ebbe verso gli aspetti estetici legati all’immagine, penso che abbiano contato in misura decisiva la vicinanza originaria del fascismo con l’avanguardia futurista e la massiccia adesione di cui godette negli ambienti artistici, specie in quello delle arti figurative.
Anche la giovane architettura razionalista fu massicciamente fascista. Si è già detto della Sarfatti: nel primo decennio del regime la sua influenza fu fortissima.
Un altro elemento ricorrente è la tensione centro-periferia, che ricalca anche il percorso di Mussolini: vista dalla provincia e dalla giovinezza, Roma è per lui la decadenza da denunciare, ma poi chi vuole il potere è a Roma che deve «mettere mano».
A cominciare dall’obbligo comminato da Luigi XIV all’aristocrazia francese di risiedere a Versailles alla sua corte, il potere autoritario è sempre un potere centralizzatore, che mira a promuovere il concentramento anche materiale di tutte le élite del Paese intorno a sé: chi conquista il centro è sempre centralizzatore.
Mussolini non fece eccezione, tanto più che nel suo caso l’esigenza centralista aveva come oggetto lo stesso fascismo spesso turbolento delle periferie, rappresentato dai ras. Il mito di Roma era quanto di meglio per tenere tutto e tutti sotto controllo.
Questo ambiguo rapporto tra centro e periferia è poi proseguito dentro la Repubblica, lo vediamo in tante diatribe attuali. Perché Roma continua a essere una «capitale malamata», per citare un libro di Vittorio Emiliani?
Roma è una capitale malamata soprattutto perché agli occhi degli italiani rappresenta lo Stato e la politica: due dimensioni che per molte ragioni, di cui alcune pretestuose o infondate, a molti italiani non piacciono o sono profondamente estranee.
Il problema dunque solo in parte è Roma, per altra parte è la diseducazione politica del Paese che ci portiamo appresso da tanto tempo.
Dopo tanti libri a riguardo: chi sono gli italiani? Come si fa, da cittadini della Repubblica, a mantenere una relazione non conflittuale con la «porzione di italianità» maturata durante il Ventennio?
L’espressione «porzione d’italianità» mi piace. Dice bene che cosa fu il fascismo, che cosa esso fu anche: e cioè la manifestazione nel bene e nel male di alcuni tratti di fondo della nostra storia e al tempo stesso di quello che si usa chiamare il «carattere degli italiani».
Chi oggi, invece, descrive o interpreta il fascismo alla stregua del male assoluto – ad esempio spiegandone la vittoria solo con la brutalità e la violenza o equiparandolo al nazismo – non solo non riesce a darne un’interpretazione storica verosimile, ma di fatto lo equipara alla «calata degli Hyksos» come fece Benedetto Croce ottant’anni fa. Solo che Croce aveva più di una giustificazione pratica e ideale, viceversa chi oggi lo imita dice semplicemente una sciocchezza.
Correva l’anno 1998: nasce la collana «L’identità italiana»
Curata da Galli della Loggia, L’identità italiana è una collana che il Mulino ha editato dal 1998 al 2010, per un totale di 50 titoli. Nella premessa del curatore si legge:
«La collana vuole raccontare in che modo gli italiani sono diventati quelli che oggi sono attraverso la loro storia, aiutarli a capire l’origine, i contenuti e il senso della loro identità individuale e collettiva».
Tra i primi titoli, poi rieditati in altre collane, ricordiamo: L’identità italiana dello stesso Galli della Loggia, Giordano Bruno di Anna Foa, Coppi e Bartali di Daniele Marchesini.
Per oggi è tutto. Martedì prossimo parleremo di Europa, a partire dal nuovo libro di Antonio Padoa-Schioppa.
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