Alberto Clô
Il rebus energetico
Un brano dal testo |
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Epilogo, Alcune riflessioni niente affatto
conclusive, pagg. 225 e ss.
La moderna storia dell’industria energetica, dopo aver conosciuto
un importante «punto di svolta» con le traumatiche crisi degli
anni Settanta, a cui fece seguito una lunga fase di stabilità dei
mercati internazionali, conosce col nuovo millennio un intreccio
di accadimenti ancor più intensi e complessi e tali da potersi
configurare come «nuova crisi energetica»: con dinamiche incerte
nel loro divenire e difficilmente preventivabili nei loro esiti finali.
Più intensi, perché coinvolgono la globalità dei mercati sia in
senso geopolitico che merceologico, essendone interessate tutte
le aree del mondo e tutte le fonti di energia, e non solo il petrolio
e i paesi industrializzati come accadde in passato. Più complessi,
perché originano dalla reciproca interazione di più cause di diversa
natura ma egual rilevanza – economiche, politiche, istituzionali,
ambientali – che hanno raggiunto un punto di massima criticità
nel medesimo arco di tempo.
Una prima (non per importanza) causa, interna ai sistemi
energetici, è data dalla forte impennata della domanda di energia,
trainata da una crescita economica mondiale senza pari, cui
l’offerta stenta a tener dietro, con margini di capacità inutilizzata
esigui rispetto agli incrementi di domanda e ai rischi di
interruzioni dell’offerta. Da qui, un avvitamento verso l’alto
dei prezzi che non sembra potersi arrestare, anche in un’ottica
di lungo periodo, a motivo dell’insoddisfacente dinamica degli
investimenti e della lentezza con cui vanno procedendo i processi
di aggiustamento ai maggiori prezzi reali sia della domanda che
dell’offerta di energia.
Una seconda concausa, biunivocamente intrecciata alla prima,
è data dall’acuirsi delle tensioni politiche internazionali nell’intero
scacchiere mediorientale: con l’Iraq ancora martoriato da una lacerazione interna che impedisce il ritorno a una situazione di
normalità operativa; l’Iran in piena contrapposizione con l’intera
comunità internazionale (Russia e Cina escluse) per la ferma determinazione
a dotarsi della tecnologia nucleare; l’Arabia Saudita
incapace di riassumere un ruolo di leadership e di mediazione
regionale. La dimensione politica della crisi è acuita dal revanscismo
nazionalista che sta infiammando molti stati produttori
contro le imprese estere e dalla politica di egemonia perseguita
dalla Russia sulla scena internazionale.
Non diversamente dal passato, politica ed economia del petrolio
si intrecciano in una spirale di crisi che è, tuttavia, errato porre in
una diretta relazione causale: giacché a generarla sono piuttosto
le criticità nei fondamentali reali del mercato. Non è, in sostanza,
la politica a piegare l’economia – come dimostrano molte crisi
internazionali che non hanno avuto alcun significativo impatto sui
prezzi (crisi di Suez 1957, guerra dei Sei giorni 1967, guerra Iran-
Iraq 1980-1988, prima crisi del Golfo 1991) – ma è semmai questa
che consente alla politica di dispiegarsi in tutta la sua dirompente
portata nelle fasi storiche in cui è attraversata da condizioni di
criticità strutturale (insufficienza della spare capacity; rigidità negli
scambi internazionali; concentrazione dell’offerta marginale in pochi
stati politicamente instabili e ostili). Comunque sia, il risultato è
che la questione della «sicurezza energetica» è tornata ad assumere
per la più parte degli stati consumatori/importatori una rilevanza
politica prioritaria – specie alla luce del continuo accrescersi della
loro dipendenza dai rifornimenti esteri – non diversamente da quel
che accadde per la più parte del secolo scorso, ma con strumenti
oggi del tutto inadeguati a farvi fronte.
La terza concausa è il profondo mutamento dell’assetto organizzativo
delle industrie e dei mercati energetici dei paesi industrializzati,
col venir meno del ruolo dominante che un tempo vi
svolgevano (direttamente e indirettamente) gli stati, senza però che
ad esso abbia fatto seguito il pieno affermarsi dei meccanismi di
mercato, che a quel ruolo avrebbero dovuto supplire in maniera
ancora più efficace ed efficiente. La crisi ha colto, in sostanza, i
sistemi occidentali (ed europei in particolare) a metà del guado
nella loro transizione dallo stato al mercato, col rischio di sommare le inefficienze dell’uno a quelle dell’altro. Sempre all’interno di
questa concausa, può includersi l’imporsi nelle filosofie decisionali
(anche) dell’industria energetica della logica finanziaria su quella
industriale: con l’effetto di deprimere la propensione a investire
degli operatori sia rispetto al passato che alle gigantesche risorse
finanziarie rese loro disponibili dagli alti prezzi.
La quarta e certo non ultima concausa della crisi, è l’irrompere
nella «questione energetica» di tematiche ambientali, sociali, politiche
che, nel loro combinarsi, hanno fortemente condizionato e
rallentato le capacità di risposta degli stati. Ogni possibile scelta,
in qualunque direzione muova, ha finito per originare infinite e
irrisolvibili controversie, in un inestricabile groviglio di ideologie,
fatti, interpretazioni, col risultato di rendere ogni decisione
quasi impossibile da realizzarsi. Il «nuovo» è sempre e comunque
contrastato, anche quando potrebbe consentire una riduzione dei
costi sociali verso cui i movimenti ambientalisti, spesso a ragione, si
sono accaniti. Questo atteggiamento di pregiudiziale opposizione
a ogni decisione – che ha raggiunto nel nostro paese livelli patologici
altrove non riscontrabili – è frutto, a ben vedere, proprio del
benessere e della ricchezza che il mondo agiato ha acquisito grazie
all’energia.
In precedenza, ogni scelta che la riguardasse rimaneva interna
alle istituzioni, alle cancellerie, alle comunità degli affari, non
incontrando particolari vincoli esterni nelle comunità locali, nei
gruppi politici, nelle forze sociali. Le politiche pubbliche erano
facili da realizzarsi, perché in grado di agire sostanzialmente
indisturbate. Scoprire petrolio o metano; attrarre investitori e
investimenti; costruire oleodotti, raffinerie, centrali elettriche;
erano fatti vissuti e percepiti positivamente dalle comunità: perché
ritenuti necessari allo sviluppo economico, all’aumento del benessere,
al suo diffondersi a strati sempre più vasti della popolazione.
Erano percepiti, in sintesi, come una conquista sociale per cui
valeva la pena battersi o, comunque, da non doversi in alcun modo
contrastare. Questa consapevolezza collettiva era la condizione
necessaria e sufficiente all’operare della politica.
[...]
Sin qui il sunto delle problematiche che abbiamo sopra analizzato.
La multidimensionalità delle sfide che attraversano l’attuale
crisi energetica – competitività, sicurezza, sostenibilità – e le
difficoltà a individuare «punti di sintesi» dei rispettivi trade off
(quel che è economicamente conveniente, come per le fonti fossili,
non lo è ambientalmente; quel che è politicamente sicuro e
ambientalmente virtuoso, come per il nucleare, è socialmente ed
economicamente sconveniente; e via di seguito) non consentono di trarne conclusioni univoche né, tanto meno, di formulare certe
ed esaurienti ricette sul «che fare». A problemi complessi non
vi sono risposte semplici. Guardando le cose con l’occhio lungo
della storia e dell’esperienza una conclusione, semmai, emerge con
tutta evidenza: che nel mondo dell’energia quelle che appaiono (e
spesso vengono spacciate) come verità sono destinate col tempo a
fallire o a essere soppiantate da altre verità. Esse non possono che
essere parziali, temporanee, caduche. Ogni problema che sembra
andare a soluzione ne apre altri ancor più complessi.
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