Nasr
Hâmid Abû Zayd
Una vita con l'Islam
Capitolo primo,
Il piccolo mondo del villaggio,
pagg. 32 e ss.
I
bambini che memorizzavano il Corano erano suddivisi
in vari gruppi, senza che però vi fosse un sistema troppo
rigido. Se lo shaykh aveva l’impressione che uno fosse
particolarmente bravo, lo teneva a lezione fino all’ora della
preghiera della sera, e anche oltre. Imparare tutto il Corano
a memoria voleva dire esercitarsi ogni giorno in una sua
singola parte, chiamata hizb. All’inizio l’alunno
doveva scrivere
il compito, di regola cinquanta versetti, con l’inchiostro
e una penna fatta di canna di bambù su una lavagna
metallica. Stranamente l’inchiostro teneva molto bene sul
metallo, e per cancellarlo bisognava usare un panno umido.
La lavagna metallica era molto importante e riservata
esclusivamente alla trascrizione dei versetti coranici. Forse
stava per la «tavola ben custodita» in cielo, sulla
quale, secondo la credezza popolare, è scritto il Corano.
C’era
anche una lavagna di ardesia, sulla quale scrivevamo con il
gessetto; non veniva però usata per i versetti del Corano,
ma soltanto per imparare a leggere e scrivere. Dopo che
l’alunno aveva scritto i versetti, lo shaykh lo teneva
stretto tra le ginocchia per recitarglieli. Il bambino doveva quindi
ripeterli. A ogni errore riceveva una bacchettata sulla testa;
un colpetto leggero che doveva servire a fargli capire che
aveva commesso un errore e che doveva ripetere il versetto
daccapo. Se faceva un altro errore, riceveva un’altra bacchettata;
allora il versetto veniva ripetuto per la terza volta.
Lo shaykh non correggeva l’errore se non alla terza
bacchettata. È ovvio che uno non potrà mai scordarsi
una correzione
che gli è costata tre bacchettate sulla testa.
Dimenticarsi una parola o un pezzo di frase era soltanto
uno degli errori possibili. Lo shaykh puniva anche gli
errori di pronuncia e di coniugazione, così come le infrazioni
del tajwîd, l’insieme delle regole della corretta recitazione
del Corano. Lui stesso non le aveva studiate, bensì apprese
a sua volta dalla recitazione del suo maestro. Allo stesso modo le
insegnava a noi: senza spiegazioni, ma usandole
direttamente durante la recitazione. Come in un gioco
da detective, o in un puzzle, dovevamo scoprire da soli le
regole e le particolarità: scoprivamo dov’era sbagliato
allungare
o aggiungere sillabe, scoprivamo l’idghâm (che è la
contrazione di una consonante), lo shamm (pronunciare
una «u» come una «i») o l’imâla (pronunciare una «a» come una «e»).
Chi impara il Corano con questo metodo
della pratica orale, impara correttamente anche la lingua
araba. [...]
Il significato
del Corano si dischiude veramente
soltanto nella recitazione. Se ci si limita alla sua forma
scritta si trascura l’aspetto rituale, lasciandosi così sfuggire
quella che potrebbe essere definita la conoscenza estetica
o sensibile della Rivelazione. In colui che legge sorge
una voce interiore che si distingue dalla voce concreta di
chi recita, e questo vale per ogni testo, in ogni religione.
Una religione senza esperienza fisica del rituale non è molto
di più di una costruzione intellettuale. Ogni religione ha
bisogno di esperienze sensibili o estetiche. Nell’Islam è soprattutto
la recitazione del Corano ad assolvere a questa
funzione. Si tratta di un evento spirituale e di un atto rituale:
ascoltando la parola di Dio, il fedele ascolta colui che
parla, ascolta Dio. Dio gli si fa presente, e nello stesso
momento il fedele si fa presente a questo Divino Oratore.
In molti hadîth viene sottolineato come il fedele faccia
esperienza sensibile di Dio quando recita il Corano. [...]
Mi sembra che proprio nell’importanza rituale della
recitazione, che travalica i confini della comprensione razionale,
vada ricercata una delle ragioni per le quali i musulmani
si attengono rigorosamente al testo coranico e hanno
paura di uno studio critico-letterario. Istintivamente temono
la perdita di questa esperienza dei sensi, che avviene
soltanto nella recitazione e nel rito e che si basa sul fatto
che ogni singola parola del Corano vale come discorso diretto
di Dio. Temono che il Corano diventi ciò che è la
Bibbia, cioè un libro ispirato che parla di Dio, non più il
discorso stesso di Dio. Io trovo invece che non vi sia contraddizione
tra l’esperienza sensibile e recitativa di un testo,
da un lato, e la sua lettura e analisi scientifica come
testo dall’altro. Amo leggere il Corano ad alta voce e sento
che mi è possibile accedere alla ricchezza dei suoi significati
soltanto attraverso la recitazione: essa mi schiude altri
piani di comprensione oltre quello puramente mentale. Ma
nello stesso tempo come studioso sono in grado di analizzare
il Corano e di decifrarne almeno in parte la struttura
linguistica.
La recitazione è molto importante, poiché il Corano
non è per sua natura un testo di lettura. Infatti è una «recitazione» – questo è il significato della parola araba «Corano», Qur’ân. |